Eli, Peyton, Cooper, Archie e Olivia

La famiglia Manning ha portato a casa un altro Super Bowl. È il terzo. Merito dei due fratelli più giovani, ma la storia è più complessa
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08-02-2012

Eli, Peyton, Cooper, Archie e Olivia

La famiglia Manning ha portato a casa un altro Super Bowl. È il terzo. Merito dei due fratelli più giovani, ma la storia è più complessa

    Manca un fratello, al conteggio. Manca Cooper Manning, il primo, il più anziano. Il più influente nella vita degli altri. È nato tutto da lui. Venuto al mondo nel 1974, due anni prima di Peyton, sette anni prima di Eli. E sono differenze che si notano, quando si è piccoli. Nell'iconografia popolare, Eli Manning è il quarterback che domenica ha doppiato il numero di Super Bowl vinti da Peyton, due a uno, e il benevolo dualismo tra i due è al centro di ogni analisi, ritratto, discussione, ma le dinamiche interne alla famiglia sono ben diverse.

     

    Per anni, Eli è stato "l'altro" fratello, quello troppo piccolo per poter interagire con gli altri due. Quello tranquillo, tanto che quando Cooper e Peyton erano al college e qualcuno telefonava a casa Manning per chiedere di Eli la risposta di papà Archie (l'ex QB di New Orleans, Houston e Minnesota) e di mamma Olivia era spesso «è in camera sua, credo», perché dalla stanza non proveniva alcun rumore che facesse pensare alla presenza di un adolescente.

     

    Cooper e Peyton erano cresciuti assieme: giocando, discutendo, litigando, fratelli di sangue e di intenzioni anche se diversissimi per comportamento. Cooper era più sfacciato, più coraggioso, più iconoclasta, più caciarone, il tipo di ragazzo che sorpassando in pullman una colonna di auto si tirava giù i pantaloni e metteva il sedere fuori dal finestrino, cosa che Peyton, attentissimo all'opinione degli altri e a fare la cosa giusta, non avrebbe mai neppure pensato.

     

    «Peyton poteva dirti il nome dei due cornerback titolari dei Denver Broncos, Eli no. Io sì, ma poi non sapevo fare i compiti di algebra, e allora non contava niente» disse un giorno Cooper, che aprì la strada agli altri due.

     

    Il football gli piaceva tantissimo, e poco alla volta, nonostante la bassa velocità di base - difetto di famiglia, o meglio dei figli, visto che Archie aveva la gamba lesta utile anche a sfuggire alla pressione - riuscì ad affermarsi come ricevitore (wide receiver). Non gli interessava fare il quarterback, non gli piaceva neppure: un giorno, causa l'infortunio del titolare e della riserva, dovette ricoprire quel ruolo, e alla primissima azione lanciò ad un compagno che percorse 99 yards segnando il touchdown più lungo nella storia della Isidore Newman School, il rinomato liceo privato cui andarono tutti e tre i Manning e che nel corso del tempo ha visto tra i suoi studenti lo scrittore Michael Lewis, l'ex giocatore di basket e ora radiocronista Sean Tuohy (padre adottivo del giocatore di football Michael Oher) e Randy Livingston, considerato un tempo il playmaker del futuro del basket americano prima che una serie di problemi alle ginocchia lo frenassero.

     

    Livingston era compagno di squadra di Peyton Manning nel basket ma non nel football, sport cui Peyton si appassionò più per seguire il fratello nelle sue attività che sull'esempio del padre. Ecco il legame forte della famiglia, ecco la vera coppia di fratelli: che nel 1991, ventuno anni fa, realizzarono il sogno di giocare assieme, quando Cooper era all'ultimo anno di liceo e Peyton al secondo, ma primo nel quale poté scendere in campo. Con la sua parlantina da scugnizzo, Cooper aveva convinto il coach a utilizzare un attacco a tre ricevitori quasi fissi, in modo da poter essere uno dei tre, e presto Peyton e Cooper poterono approfittare del successo della squadra - sconfitta poi solo alle semifinali statali a causa di un intercetto lanciato da Peyton - inventando un sistema di comunicazione privato che consentiva loro di modificare schemi di gioco un attimo prima dello snap (la partenza dell'azione) senza che né i compagni né il coach se ne accorgessero. Naturalmente Peyton non lanciava il pallone solo al fratello, anzi quest'ultimo spesso di lamentava di non essere stato preso in considerazione, ma i due si divertirono come non mai. E quando Cooper, che era un giocatore di medio livello, andò al college a Mississippi, lo stesso di Archie e di Olivia, Peyton non si agitò, convinto com'era che l'accoppiata agonistica sarebbe stata ricomposta di lì a due anni a livello universitario.

     

    Ma non accadde mai: già in quell'ultimo anno di liceo Cooper aveva manifestato inusuale difficoltà a trattenere alcuni passaggi, provando poi sensazione di tremore e mani sudate nel corso della stagione con la squadra di basket, e poche settimane dopo il suo ingresso a Mississippi gli venne diagnosticata, dopo una lunga serie di esami e consulti enigmatici, una stenosi alla colonna vertebrale, ovvero un difetto congenito che in caso di colpo violento lo avrebbe portato alla paralisi. Chi conosce la storia della famiglia Manning, segnata tragicamente nel 1968 dal suicidio di Elisha Archie, il padre di Archie, non si è dunque così sorpreso di apprendere che Peyton ha saltato tutta la stagione 2011 per un problema al collo: «dopo quel che è successo a Cooper i medici hanno esaminato anche me - disse nel 2000 - e mi hanno detto che nemmeno io sono del tutto a posto, ma non prevedono rischi».

     

    In tutto questo, Eli cresceva distante dai fratelli, in età e mentalità: tranquillo, quieto, agonista ma per soddisfare se stesso più che per mostrare la propria bravura. Al padre aveva concesso di dargli un bacio affettuoso solo… la domenica, per il resto del tempo era più vicino alla madre, che lo comprendeva meglio e aveva saputo riconoscere la sua timidezza come difesa iniziale divenuta poi modo di vita e di atteggiamento, identificata da Archie come la filosofia di chi ad una festa invece di raccontare le barzellette, come avrebbe fatto Cooper, sta appoggiato al muro e ride sorseggiando una bibita, senza con questo volersi sottrarre a imprese giovanili come quella volta in cui invitò a casa una quindicina di amici, pensando che i genitori fossero via. Erano invece al piano di sopra, e quando la tenda si aprì e Archie mise la testa fuori i il manipolo di ragazzini che faceva baldoria in piscina fuggì come se avesse visto il diavolo. Archie, quella sera, volutamente non disse nulla ad Eli, ma qualche settimana dopo gli si avvicinò e disse "Eli, ricordi quella sera in piscina con i tuoi amici…», provocando nel figlio un panico raro.

     

    Easy Eli lo chiamarono tutti già al liceo proprio per la tenerezza pacata con cui affrontava le situazioni, senza gesticolare come Cooper e senza analizzarne il cuore e le radici come Peyton, e l'Easy Eli -  cresciuto a New Orleans detta the Big Easy per motivi non dissimili, ovvero la rilassatezza di modi (e costumi) - è tornato fuori nel finale del Super Bowl di domenica, quando dopo avere guardato insistentemente verso destra, per verificare la posizione di Hakeem Nicks e Victor Cruz, ha lanciato per 38 yards a sinistra, pilotando la palla su una traiettoria tesa come se fosse - vecchio modo di dire americano - una fune ghiacciata tra le mani di Mario Manningham, il ricevitore, uscito dal campo una frazione di secondo dopo essersi assicurato il possesso del pallone.        Un lancio precisissimo e difficilissimo, che ha solidificato la reputazione di Manning tanto quanto aveva fatto nel Super Bowl di dodici mesi fa un analogo gesto di Aaron Rodgers, quarterback dei Green Bay Packers, su Greg Jennings, nel momento in cui la sua squadra doveva congelare la partita. Easy Eli perché pur esultando per il lancio fenomenale e la splendida ricezione Manning non ha fatto altro che riazzerare l'emotività e procedere verso l'azione successiva. Se non lo avesse fatto, se si fosse perso in esultanze premature, glielo avrebbe fatto notare poi Peyton, che per lui è stato più un secondo padre che un fratello, e magari anche Cooper, caciarone però per sua stessa ammissione interprete attraverso le gesta dei fratelli della carriera da giocatore che egli stesso avrebbe voluto avere.

     

    E che forse però non aveva la "testa" per affrontare, a prescindere dal problema alla colonna vertebrale: un giorno infatti Cooper, fedele al proprio spirito e al proprio personaggio, disse «se ci fossi stato io, al posto di Peyton, al primo bonifico milionario da giocatore NFL avrei detto 'ah, che male al ginocchio, devo ritirarmi' e avrei trascorso il resto della vita a guidare la stessa auto e abitare nella stessa casa ma a portare a pranzo gli amici e al momento dei saluti prenderli in giro perché loro dovevano tornare al lavoro e io no».

     

    di Roberto Gotta

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