Chicago si difende bene

I Bears, squadra tra l'altro amata da Barack Obama, fanno impressione per la loro difesa. Basterà a trascinarli per il resto dell'annata?
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Chicago si difende bene

I Bears, squadra tra l'altro amata da Barack Obama, fanno impressione per la loro difesa. Basterà a trascinarli per il resto dell'annata?

    Riprende la rubrica Nfl, dopo una settimana di sosta forzata. 

    PRIMO DOWN - Il calendario è difficile nella seconda parte della stagione, ma è innegabile che i Chicago Bears stiano facendo impressione, per le sette vittorie (contro una sola sconfitta, a Green Bay) e soprattutto per le splendide prestazioni della difesa. Parlare di difesa a Chicago porta a riflessi pavloviani che innescano subito il ricordo della squadra del 1985, campione Nfl dopo una stagione che la vide mettere in campo un reparto tra i più distruttivi che la lega avesse visto. 15-1 in regular season, con 11 avversari tenuti a 10 o meno punti, due vittorie a zero nei playoff e nel Super Bowl XIX di New Orleans del gennaio 1986 un 46-10 ai danni di New England, a galla solo nei primi minuti, poi dominata. Era la squadra allenata da Mike Ditka ma con un defensive coordinator, Buddy Ryan (padre di Rex e Rob, attuali coach Nfl), così influente da essere portato in trionfo dai suoi giocatori a fine Super Bowl, quasi a rappresentare la frattura che si era creata in un gruppo per nulla armonico (Jim McMahon, il qb, ad esempio odiava Dan Hampton, il più rappresentativo degli uomini di linea, e sentimento non dissimile separava Ditka e Ryan) ma inarrestabile. Era la famosa difesa "46", dal numero di Doug Plank, il safety che era stato tra i più influenti giocatori della prima fase di questa difesa, nata di fatto nel 1979 ma divenuta travolgente con il passare del tempo e l'arrivo di giocatori migliori rispetto a quelli che l'avevano inizialmente interpretata. Come era? Il principio di base era inedito: uomini di linea di difesa di fronte al centro e alle due guardie, per impedire loro di aiutare nei raddoppi, poi un quarto (un defensive end) dal lato debole, ovvero quello in cui l'attacco non ha un tight end, e gli altri giocatori molto vicini alla linea di scrimmage, a fermare le corse e creare pressione, con grande responsabilità lasciata ai cornerback, spesso isolati in uno contro uno ma favoriti dal ridottissimo tempo che i quarterback, in genere, avevano per lanciare. Ora, la difesa dei Bears del 2012 non può essere paragonata a quella, perché sono cambiati i tempi e gli attacchi, ma gli uomini di linea restano quattro (molte squadre ne schierano invece tre) e i risultati sono impressionanti: nel 51-20 a Tennessee i Bears hanno segnato ancora un touchdown con la difesa, il settimo della stagione, aggiungendone uno con lo special team di ritorno punt, che ha bloccato un calcio dei (malandati, va detto) Titans. Con i ben cinque fumble provocati, di cui quattro da parte dell'attualmente esplosivo cornerback Charles Tillman, i Bears sono a quota 28 palloni tolti agli avversari, contro i soli 12 persi, miglior differenziale della Nfl e motivo massimo per l'ottima prima metà di stagione della squadra. Metà, appunto: le prossime due partite sono contro gli Houston Texans (pure loro 7-1) e i San Francisco 49ers, il resto del calendario non è agevole e allora culliamo i Bears finché sono lì in alto. Dovessero restarci, onore a loro. 

    SECONDO DOWN - Vincendo contro Kansas City nel Thursday Night, San Diego è salita a quattro vittorie e altrettante sconfitte, in una stagione fin qui deludente come molte delle precedenti. Conta poco che in passato i Chargers abbiano spesso rimontato e accelerato verso fine novembre, entrando alla fine nei playoff (non nell'ultimo biennio, però): i precedenti sono solo una curiosità, non una guida per il futuro, anche se lo staff tecnico è in gran parte il medesimo, così come la preparazione. Curiosità è piuttosto che nei Chargers giochi come linebacker titolare, per la precisione uno dei due linebacker interni nella difesa 3-4, Takeo Spikes, 36 anni tra poco più di un mese, un nome di battesimo che i genitori gli diedero dopo aver sentito nominare in televisione un primo ministro giapponese. Spikes è un buon giocatore e professionista molto serio, altrimenti non sarebbe ancora in campo alla sua età in un ruolo molto impegnativo, ma ha la sua scelta di tempo al momento di firmare i contratti è agli antipodi di quella che ha in campo nei placcaggi. Pur avendo infatti vestito la maglia di cinque squadre dal 1998 ad oggi infatti non ha mai giocato una partita di playoff. Ovvero, nessuna di quelle squadre li ha mai fatti. Ridicolo credere a maledizioni e altre facezie del genere, ma si rabbrividisce nel notare che nel 2004 i Buffalo Bills, di cui vestiva la maglia, non entrarono nei playoff a causa di una sconfitta nell'ultima partita, contro Pittsburgh che era già tranquilla e per quel motivo aveva tenuto a riposo il quarterback titolare Ben Roethlisberger. E che il 2007, unico anno di Spikes a Philadelphia, fu anche solo la seconda stagione tra il 2000 e il 2010 in cui gli Eagles non arrivarono ai playoff. Forza e coraggio.

    TERZO DOWN - La scena, ad ogni draft della Nfl, è bella, quasi commovente: il giocatore appena uscito dal college che viene ripreso dalle telecamere nella casa dei genitori, circondato da amici e parenti che lo sommergono di abbracci nel momento in cui gli viene comunicato di essere stato scelto. Quel che accade quando il pulmino della Espn se ne va, o si chiude la webcam, è altro discorso. Nella maggioranza dei casi in realtà non succede nulla, ma in alcuni, che però fanno molta notizia, l'arrivo del benessere e dell'improvvisa ricchezza si contorce come un tornado, e spazza via i buoni sentimenti e dignità. Di recente, proprio la Espn ha mandato in onda un documentario che racconta le tristissime storie di atleti ridottisi sul lastrico per scarso senso degli affari, truffe subite o pessima gestione dei propri denari, e purtroppo il materiale per questo tipo di inchieste viene costantemente fornito dai non pochi sciagurati che vestono una divisa da professionista dello sport. È notizia di pochi giorni fa che Tyron Smith, offensive tackle di Dallas, alla sua seconda stagione nella Nfl, ha dovuto chiamare la polizia per liberarsi di tre persone che stavano cercando di entrare nella sua casa: tra queste, due sorellastre (Smith ne ha tre, più due fratellastri), ultima tappa di una storia tristissima che ha coinvolto il giocatore. Il quale solo quattro mesi fa aveva ottenuto da un giudice un'ordinanza che impediva alla madre e al patrigno di avere contatti con lui, proibendo loro anche di avvicinarsi al luogo, in California ovvero dove risiede la famiglia, in cui i Cowboys svolgono la preparazione estiva. Alla base di tutto, dice Smith tramite un avvocato, le continue richieste di denaro di madre, patrigno e altri componenti del nucleo familiare, al quale tra l'altro il giocatore aveva fatto una non piccola donazione una volta firmato il primo contratto da professionista, 12.5 milioni (lordi). Madre, patrigno eccetera replicano parlando di influenze negative che la fidanzata di Smith, di cinque anni più vecchia di lui, eserciterebbe sul ragazzo, esortandolo a tagliare fuori la famiglia di origine, mentre emerge anche che mancherebbe dai conti dell'ultimo anno un milione di dollari, e non casualmente Smith si sarebbe liberato di un consulente finanziario cui si era rivolto subito dopo il draft su consiglio della madre e del patrigno. Comunque sia, un grosso inghippo, non nuovo purtroppo: capita, quando un atleta è sospeso tra il concetto del "keeping it real", una sorta di esortazione alla fedeltà verso chi ti ha allevato e chi ti è stato amico prima della fama, e la necessità di vivere liberamente, senza buttare soldi in improbabili avventure commerciali che il compagno di infanzia di turno ti propone non appena hai due dollari. Curioso peraltro che il keeping it real, parlando come si mangia il "tenere i piedi per terra" senza montarsi la testa e abbandonare i conoscenti di una vita, porti invece spesso al risultato opposto, quello cioè di perdere contatto con la realtà e rovinarsi. In bocca al lupo a Smith, e agli altri come lui. 

    QUARTO DOWN - C'è modo e modo di essere provinciali, e quando si parla di sport americano, nella sua proiezione europea, il provincialismo può assumere toni differenti. Tra i cronisti che si occupano di sport americano da più tempo, uno dei "divertimenti" più amari è vederlo esplicitato quando si svolge in Europa una partita di una lega Usa e lo sprovveduto di turno, quasi sempre giornalista locale o comunque non esperto, se ne esce con la solita domanda, talmente scontata da far cadere le braccia: "quand'è che avremo una squadra fissa in Europa?". Il commissioner di turno adotta il rituale tono benevolo e risponde in maniera vaga e diplomatica, e altro tempo intanto viene sottratto a temi più seri. Ma il cronista locale, che spesso è provinciale nell'animo (e non ci sarebbe nulla di male se non fosse per queste drammatiche uscite pubbliche), ha la sua rispostina, e la soddisfazione (?) di aver fatto la domanda al grande capo. In realtà, le probabilità che sorga un club ("franchigia") in Europa sono molto basse, per i prossimi dieci anni. Nba: impossibile, per motivi legati ai viaggi costanti. Nfl: improbabile, checché ne dica tra gli altri Robert Kraft, proprietario dei New England Patriots, che domenica 28 ottobre a Wembley hanno battuto 45-7 i St.Louis Rams. Sesta partita consecutiva di regular season Nfl a Londra, tradizione aperta nel 2007 con Miami Dolphins-New York Giants, e il cui successo, con oltre 84.000 spettatori (record stagionale della NFL). L'anno prossimo ci saranno due appuntamenti, Minnesota Vikings-Pittsburgh Steelers il 29 settembre e Jacksonville Jaguars-San Francisco 49ers il 27 ottobre. Nel caso dei Vikings, la partita "casalinga" nasce mentre si costruisce il nuovo stadio, mentre Jacksonville ha scelto di giocare a Londra una partita "in casa" per i prossimi quattro anni. E si è appunto tornati a parlare, Kraft compreso, di una squadra fissa nella capitale del Regno Unito, ospitata magari dall'ex stadio olimpico. Bei discorsi, ma che a volte ci paiono campati in aria: avere più di 80.000 persone una volta l'anno a Wembley non significa poterne avere altrettante 8 volte a stagione per una squadra locale. Anche perché la stragrande maggioranza dei presenti ha normalmente addosso la maglia della propria franchigia Nfl preferita, e partecipa alla partita come ad una festa annuale del football: sarebbe, questa gente, disposta a mettere da parte un tifo a volte pluridecennale per appoggiare i London Monarchs o come diavolo si potrebbero chiamare? Una parte non ridotta del pubblico di Wembley, inoltre, proviene dal resto dell'Europa, e un conto è fare il viaggio una volta l'anno, un conto doverlo affrontare altre sette volte, come richiederebbe il calendario. A nostro avviso, gli ostacoli sono troppi, e non è nemmeno che il football, seppur molto supportato dalla Nfl nel Regno Unito, sia poi lassù in cima agli interessi del pubblico: una base molto solida esiste, ma come faceva notare l'altro giorno un editorialista ben informato la Nfl è comunque solo al settimo posto nella classifica di audience di Sky Uk. Occhio a non fare passi falsi, anche se dettati dall'entusiasmo, che non è mai una cattiva base di partenza.

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